Quanto fosse stretto il raccordo tra ripresa poetica e preferenze manifestate nella Crestomazia dal Leopardi, si può del resto subito verificare pensando alla formazione e ai precedenti del componimento con cui egli ricomincia la sua attività, lo Scherzo[1]. Già alcuni commentatori avevano pensato a echi di poesia sentenziosa settecentesca, a un’atmosfera di ultimo Settecento, ma non avevano osservato l’affinità di impostazione e disegno tra il componimento leopardiano e un epigramma del De Rossi intitolato La Fucina d’Amore[2]. Oltre a ciò l’affinità consiste, naturalmente, non nel tema (diverso e che tra l’altro nel De Rossi ha uno svolgimento piú contratto), ma in un tipo di poesia arguta e sentenziosa su cui il Leopardi fa la prima, anche se meno impegnativa, prova poetica di questa sua fase:
Quando fanciullo io venni
a pormi con le Muse in disciplina,
l’una di quelle mi pigliò per mano;
e poi tutto quel giorno
la mi condusse intorno
a veder l’officina.
Mostrommi a parte a parte
gli strumenti dell’arte,
e i servigi diversi
a che ciascun di loro
s’adopra nel lavoro
delle prose e de’ versi.
Io mirava, e chiedea:
Musa, la lima ov’è? Disse la Dea:
la lima è consumata; or facciam senza.
ed io, ma di rifarla
non vi cal, soggiungea, quand’ella è stanca?
Rispose: hassi a rifar, ma il tempo manca.
È senza dubbio una poesia nettamente minore, di scarso impegno e approfondimento; e semmai può considerarsi documento di un aspetto della poetica leopardiana. Vale cioè in quanto si lega con quei pensieri sullo stile, sulla frettolosità e rozzezza dei poeti contemporanei, nei quali Leopardi si era impegnato per mostrare la perdita attuale del lavoro artistico, della lima appunto, e per rivendicare la necessità di un impegno serio e profondo nello stile: la cui semplicità non è mai frutto di improvvisazione (“di getto” diremmo nel senso romantico della parola), ma risultato difficile di misura e di controllo sull’ispirazione, per evitare l’enfasi e l’approssimazione. Il Leopardi ritorna alla poesia con questa meditazione sullo stile che egli afferma presente in lui fin dagli inizi letterari e poetici, ma che vuol significare anche una presa di posizione contro molta poesia di fine Settecento e primo Ottocento. Non a caso egli nella sua Crestomazia aveva giustificato la proposta di brani di poeti di questi due periodi, dicendo nell’avvertenza ai lettori: «Sarà poco meno che superfluo l’avvertire i giovani italiani e gli stranieri, che nei passi che qui si propongono di poeti o di verseggiatori di questo secolo e della seconda metà del decimottavo, cerchino sentimenti e pensieri filosofici, ed ancora invenzioni e spirito poetico, ma non esempi di buona lingua, né anche di buono stile»[3]. È un giudizio assai pertinente per collocare lo Scherzo e coglierne il significato di affermazione di un’alta istanza stilistica e insieme di reazione polemica contro la poesia contemporanea.
Tra lo Scherzo e Il risorgimento, datato dal Leopardi 7-13 aprile ’28, può forse essere collocato un abbozzo di poesia assai piú interessante dello Scherzo, Il canto della fanciulla. Questo abbozzo manca di una precisa documentazione cronologica, e in genere è ritenuto un diretto abbozzo di A Silvia. Tuttavia mi pare, in mancanza di documenti, che possa piuttosto esser posto prima del Risorgimento, sicché in tal modo riesce piú chiara la sensazione che il Leopardi esprime nel Risorgimento di aver riacquistato sensibilità, sentimento, disposizione alla poesia: questa anticipazione cronologica, cioè, spiega meglio il senso di ripresa di alacrità sentimentale e poetica sulla base di un’esperienza già in atto in questi versi del Canto della fanciulla che, chiudendosi con un emistichio, dovette esser lasciato incompiuto di fronte all’urgere del Risorgimento. Inoltre, tale collocazione può permettere una migliore scansione tra la situazione sentimentale di questo presunto abbozzo di A Silvia, e la stessa A Silvia che nasce in realtà da un’ispirazione molto piú complessa e coerente alla poetica della ricordanza:
Canto di verginella, assiduo canto,
che da chiuso ricetto errando vieni
per le quiete vie; come sí tristo
suoni agli orecchi miei? perché mi stringi
sí forte il cor, che a lagrimar m’induci?
E pur lieto sei tu; voce festiva
de la speranza: ogni tua nota il tempo
aspettato risuona. Or, cosí lieto,
al pensier mio sembri un lamento, e l’alma
mi pungi di pietà. Cagion d’affanno
torna il pensier de la speranza istessa
a chi per prova la conobbe.[4]
In effetti ciò che manca nel Canto della fanciulla è il motivo essenziale della poetica leopardiana di questo periodo, il ricordo, il rinvio dalle sensazioni presenti al proprio passato da cui quelle ricevono una risonanza profonda. Il tema di questo componimento è dato dal contrasto tra la letizia in sé del canto e la tristezza e il malinconico struggimento che esso provoca nell’animo del poeta. E si può meglio intendere pensando anche ad altri testi leopardiani. Per esempio al finale della lettera famosa del 20 febbraio ’23 sul sepolcro del Tasso dove il Leopardi aveva insistito sul conforto datogli, in forte contrasto con la vita oziosa e parassitaria della città di Roma, dallo strepito dei telai, dal canto e dalle voci delle donne e degli operai denotanti il loro mondo schietto, autentico, la loro vita vera e non falsa, fondata sull’operosità[5]. In quel caso il canto era assunto in una direzione di conforto, come espressione di valori autentici. Un’impostazione ripresa in questo componimento poetico, ma subito svolta in tutt’altra direzione: qui il Leopardi rimane come colpito dalla singolarità di una sensazione che di per sé è lieta e tuttavia lo porta fino alle lacrime: da un canto cioè che è «voce festiva della speranza» di cui egli conosce per esperienza la natura dolorosa e ingannevole. Il Canto della fanciulla si situa perciò in direzione di A Silvia (tra l’altro ci fa intendere che la figura della fanciulla e della speranza in A Silvia sono nuclearmente unite, né perciò ha valore un’accusa di astrattezza al simbolo della speranza), ma da essa sostanzialmente si distacca perché qui il Leopardi ha soprattutto insistito sul contrasto presente tra letizia e struggimento del cuore, e ha chiarito solo all’ultimo, a guisa quasi di sentenza, che la voce della speranza provoca tristezza perché la speranza rivela la sua illusorietà a chi l’ha conosciuta per propria esperienza.
Comunque questo abbozzo, pur privo di elaborazione e di approfondimento, rappresenta (assai piú dello Scherzo che valeva al massimo come documento di una ripresa per cosí dire letteraria, di eleganza e di arguzia) il muoversi della sensibilità leopardiana che provoca il bisogno della presa di coscienza di questa nuova situazione personale e sentimentale nel Risorgimento, il primo canto vero e proprio di questo periodo.
La consapevolezza di un cambiamento nella propria situazione biografica era stata chiaramente presente in quel pensiero del 19 gennaio ’28 dove Leopardi contrapponeva allo spengersi in lui di ogni desiderio, in una zona precedente della sua vita, l’attuale risorgere della speranza, sebbene non accompagnata dal desiderio[6]. Impostato sul tema della speranza era stato anche l’abbozzo poetico II Canto della fanciulla, il cui canto appunto era voce festiva e lieta della speranza, anche se portava al poeta un senso di struggimento e di amarezza, perché egli intendeva che la speranza è destinata alla caducità. Il risorgimento[7] va al di là di questo contrasto tra speranze e desideri per puntare decisamente al risorgere non della speranza o del desiderio, ma della radice stessa della vitalità, del cuore, del sentimento.
Il canto si articola sull’intreccio di due motivi fondamentali, il risveglio del sentimento, la ripresa del cuore, la fine dell’aridità, e una lucida consapevolezza con cui Leopardi gradua e misura questa ripresa vitale con l’antico ardore in cui aveva vissuto come vere le illusioni. La ripresa del cuore indica la fine dell’insensibilità e dell’aridità succeduta alla caduta delle illusioni, la fine di un abito di indifferenza placida, di una specie di atarassia stoica che, accettata dal Leopardi come soluzione provvisoria tra il ’25 e il ’26, costituiva tuttavia la negazione di ciò che egli veramente amava, una capacità di sentire e di reagire agli uomini e al paesaggio, o magari di provare dolore, considerato come riprova di vita affettiva e sentimentale, di commozione e di reazione. È il motivo che conduce ai moti di meraviglia e di stupore e che giustifica l’impeto particolare del ritmo. Il tema della lucida consapevolezza gradua invece la storia interiore del Leopardi (secondo, del resto, la definizione di idillio come avventura storica del proprio animo), i vari momenti della sua parabola vitale; l’attuale ripresa non è una ripresa di vitalità, è diversa dalla fiducia nelle illusioni e nella speranza propria dell’adolescenza e della prima gioventú. Il canto è costruito sull’incontro di questi due motivi e ha qualcosa di alacre e di esplosivo, ha un ritmo agile e veloce che si avvale di procedimenti come la ripetizione di parole fondamentali per dare un’accentuazione e uno slancio, e l’uso dell’arcatura, dell’enjambement, tra quartina e quartina, per tradurre nel ritmo questo fervore. La lucida consapevolezza porta invece a una costruzione assai calcolata, e a una divisione del componimento strettamente simmetrica: nella prima parte la storia passata, vista come inerzia, indifferenza e aridità (vv. 1-80), e la seconda a denotare la ripresa vitale (vv. 81-160). Ogni parte è poi ulteriormente suddivisa in altre parti interne, in un disegno molto netto e consapevole, assai diverso dal fluire ininterrotto di immagini e di ritmo di altre e piú grandi poesie leopardiane.
L’incontro, d’altra parte, tra moto alacre e lucida consapevolezza ha portato a un’attenzione al ritmo (piú che all’approfondimento delle singole immagini) e alla stessa scelta metrica. Lo schema del canto, come è stato piú volte notato, costituisce infatti un unicum, dal punto di vista della scelta del metro, che è quello proprio di una canzonetta settecentesca, per esempio Il brindisi del Parini in cui si ha la stessa costruzione della strofa in due quartine tutte di settenari di cui il primo e il quinto sdruccioli, il quarto e l’ottavo tronchi, e gli intermedi, il secondo, il terzo, il sesto e il settimo, piani e a rima baciata tra loro. E si può rimandare anche, al di là dell’esempio preciso del Parini, alle canzonette La libertà e la Palinodia del Metastasio, a certe canzonette del Bertola e del Pindemonte, dai quali Leopardi riprende oltre a sollecitazioni metriche anche spunti di linguaggio e di impostazione. Questa consonanza con la poesia settecentesca si spiega con la ricerca da parte del Leopardi di uno schema metrico e di un linguaggio atto a rendere il movimento interno di alacrità e di vitalità e insieme a tradurre la compresenza di elementi patetici e insieme lucidi, propri di quel tipo di poesia settecentesca:
Credei ch’al tutto fossero
in me, sul fior degli anni,
mancati i dolci affanni
della mia prima età:
i dolci affanni, i teneri
moti del cor profondo,
qualunque cosa al mondo
grato il sentir ci fa.
Quante querele e lacrime
sparsi nel novo stato,
quando al mio cor gelato
prima il dolor mancò!
Mancàr gli usati palpiti,
l’amor mi venne meno,
e irrigidito il seno
di sospirar cessò!
Piansi spogliata, esanime
fatta per me la vita;
la terra inaridita,
chiusa in eterno gel;
deserto il dí; la tacita
notte piú sola e bruna;
spenta per me la luna,
spente le stelle in ciel. (vv. 1-24)
In questo primo movimento l’alacrità che Leopardi sente tornare in sé si traduce in un ritmo agile e assai diverso da quello stanco e inerte della sua ultima poesia, l’epistola Al conte Carlo Pepoli, del 1826, anch’essa costruita secondo uno schema metrico settecentesco, di tipo discorsivo, e in sciolti. Ma come l’inerzia ritmica in quell’epistola era stata il corrispettivo di una stanchezza sentimentale, cosí nel Risorgimento la ripresa sentimentale e vitale si esprime anzitutto nell’agilità dell’impostazione e l’espansione sentimentale è sottolineata dalla ripetizione vicina di parole tematiche, dagli accordi di aggettivo e sostantivo e dall’uso dell’enjambement.
Procedimenti che servono a Leopardi per sottolineare questa ripresa effettiva del sentimento anche nel momento in cui egli ne denuncia l’inaridirsi nel periodo passato. D’altra parte, la continua insistenza sui riferimenti del tutto soggettivi, il ritorno costante del pronome personale: «In me», «Meco», con me, indicano il carattere personale e chiuso ad allusioni a situazioni generali, di questa riconsiderazione del proprio passato che corrisponde a quel gusto della lirica come totale soggettività su cui Leopardi insisteva in questo periodo nei pensieri dello Zibaldone.
Pur di quel pianto origine
era l’antico affetto:
nell’intimo del petto
ancor viveva il cor.
Chiedea l’usate immagini
la stanca fantasia;
e la tristezza mia
era dolore ancor.
Fra poco in me quell’ultimo
dolore anco fu spento,
e di piú far lamento
valor non mi restò.
Giacqui: insensato, attonito,
non dimandai conforto:
quasi perduto e morto,
il cor s’abbandonò.
qual fui! quanto dissimile
da quel che tanto ardore,
che sí beato errore
nutrii nell’alma un dí!
La rondinella vigile,
alle finestre intorno
cantando al novo giorno,
il cor non mi ferí:
non all’autunno pallido
in solitaria villa,
la vespertina squilla,
il fuggitivo Sol.
Invan brillare il vespero
vidi per muto calle,
invan sonò la valle
del flebile usignol.
E voi, pupille tenere,
sguardi furtivi, erranti,
voi de’ gentili amanti
primo, immortale amor,
ed alla mano offertami
candida ignuda mano,
foste voi pure invano
al duro mio sopor. (vv. 25-64)
Viene tracciato, nelle sue gradazioni, il progressivo inaridirsi del sentimento. Ai dolci tormenti che il cuore provava, alla capacità di reazione del sentimento e della fantasia che, pur inaridita e come stanca, tuttavia ancora aspirava, desiderava, chiedeva le usate immagini e la stessa tristezza, e che quindi era ancora capace di qualche reazione sentimentale dolorosa, succede («Fra poco»: poco dopo) il totale inaridimento, l’indifferenza inerte, l’atonia assoluta («Giacqui: insensato, attonito»: dove il Leopardi sembra anche recuperare le descrizioni del suo stato di infelicità e di atonia che compaiono tante volte nelle lettere). Il cuore non reagisce piú e si abbandona, «Quasi perduto e morto». A questa lucida scansione della sua storia sentimentale, il Leopardi accompagna un moto di stupore e sorpresa che qui viene denotato dall’uso dei frequenti esclamativi («Qual fui!» ecc.) per accentuare l’espansione sentimentale dell’attuale ripresa, piú forte che nella prima parte (terza stanza), come si vede dalla maggiore alacrità del riverberarsi dello stato d’animo inaridito nel paesaggio che (al di là di immagini piú deboli e convenzionali, e poco siglate leopardianamente come «rondinella vigile», «fuggitivo Sol», «flebile usignol») culmina nella decima stanza dove il poeta passa a parlare dell’effetto amoroso prodotto in lui dalla bellezza femminile. In questa stanza infatti, malgrado l’aspetto negativo in cui è visto («Foste voi pure invano»), il fascino femminile dà una vibrazione piú forte e singolarmente bella nell’immagine della «Candida ignuda mano» e in quel gesto gentile e suggestivo, in qualche modo confidente («Ed alla mano offertami») in cui Leopardi concentra questa ripresa di sensibilità e la sua casta e ardente sensualità.
D’ogni dolcezza vedovo,
tristo; ma non turbato,
ma placido il mio stato,
il volto era seren.
Desiderato il termine
avrei del viver mio;
ma spento era il desio
nello spossato sen.
Qual dell’età decrepita
l’avanzo ignudo e vile,
io conducea l’aprile
degli anni miei cosí:
cosí quegl’ineffabili
giorni, o mio cor, traevi,
che sí fugaci e brevi
il cielo a noi sortí. (vv. 65-80)
Il senso di torpore, di inerzia, di privazione di ogni dolcezza e anche di ogni dolore da cui Leopardi in questa specie di termine basso della parabola discendente del suo assoluto inaridimento è colpito, si consolida in questa ultima parte nell’immagine spaventosa di un volto sereno, non turbato, placido, perché incapace ormai di ogni reazione tanto da non poter neppure piú desiderare la morte.
La seconda parte inizia con un primo movimento estremamente celere, sottolineato dalla folla di interrogativi adoperati a tradurre il moto di maggior impeto, di sorpresa e meraviglia e quasi di lieto stupore che Leopardi prova di fronte a questo senso della ripresa nella sua vita di sensibilità:
Chi dalla grave, immemore
quiete or mi ridesta?
Che virtú nova è questa,
questa che sento in me?
Moti soavi, immagini,
palpiti, error beato,
per sempre a voi negato
questo mio cor non è?
Siete pur voi quell’unica
luce de’ giorni miei?
Gli affetti ch’io perdei
nella novella età?
Se al ciel, s’ai verdi margini,
ovunque il guardo mira,
tutto un dolor mi spira,
tutto un piacer mi dà.
Meco ritorna a vivere
la piaggia, il bosco, il monte;
parla al mio core il fonte,
meco favella il mar.
Chi mi ridona il piangere
dopo cotanto obblio?
E come al guardo mio
cangiato il mondo appar? (vv. 81-104)
Questo primo movimento corrisponde esattamente, in un simmetrico e lucido giuoco di corrispondenze, al movimento iniziale della prima parte; ma di contro al degradare della progressiva aridità espresso nei versi iniziali, qui c’è un senso improvviso di risorgimento che pur nella generale sommarietà stilistica trova punti anche intensi e pregnanti: quel «grave, immemore» a denotare l’opacità, la mancanza di memoria propria di quello stato di inerzia e aridità sentimentale, è come un fulmineo apparire del motivo della ricordanza, cosí importante per la poesia successiva (Le ricordanze, A Silvia), e già presente e avvertito in quel gruppetto di pensieri dello Zibaldone, dopo il ’25-26, in cui Leopardi sentendo in sé «una nuova vitalità» tenta sotto il titolo di Memorie della mia vita un recupero della sua vita passata apparsagli precedentemente addirittura priva di capacità di ricordo. Il risorgimento, ripresa anzitutto di sensibilità avvertita come fatto tutto soggettivo, viene poi connotato come rinnovamento di sensibilità («Moti soavi», «Palpiti») e di immaginazione («immagini»), e quindi, dopo una sorpresa e quasi iniziale impersuasione di fronte a un dono, a un cambiamento non atteso della propria vita («Siete pur voi quell’unica / luce de’ giorni miei? / Gli affetti ch’io perdei / nella novella età?»), viene riverberato nel paesaggio che torna a provocare nell’animo del poeta reazioni sentimentali, piacere e dolore. E magari il «piangere», quel «piacere delle lagrime» in cui nella lettera sul sepolcro del Tasso faceva consistere il piacere maggiore che egli ormai poteva provare in Roma. Il poeta sente e quasi inspiegabilmente, di nuovo stretto il suo rapporto con la natura, con un paesaggio emblematico, privo di aggettivazione, in certo modo essenziale (la «piaggia», il «bosco», il «monte» ecc.).
Segue il secondo movimento in cui Leopardi, con quella lucida consapevolezza e forse eccessiva sottigliezza che è carattere importante ma anche limite di questo canto, precisa la sua nuova situazione che poteva apparire come un generale risveglio delle illusioni, delle speranze, un ritorno alle credute e vissute illusioni della gioventú. Esse invece, una volta cadute, non possono piú risorgere, e a Leopardi non resta che questa sua nuova forza sentimentale:
Forse la speme, o povero
mio cor, ti volse un riso?
Ahi della speme il viso
io non vedrò mai piú.
Proprii mi diede i palpiti,
natura, e i dolci inganni.
Sopiro in me gli affanni
l’ingenita virtú;
non l’annullàr: non vinsela
il fato e la sventura;
non con la vista impura
l’infausta verità.
Dalle mie vaghe immagini
so ben ch’ella discorda:
so che natura è sorda,
che miserar non sa.
Che non del ben sollecita
fu, ma dell’esser solo:
purché ci serbi al duolo,
or d’altro a lei non cal.
So che pietà fra gli uomini
il misero non trova;
che lui, fuggendo, a prova
schernisce ogni mortal.
Che ignora il tristo secolo
gl’ingegni e le virtudi;
che manca ai degni studi
l’ignuda gloria ancor.
E voi, pupille tremule,
voi, raggio sovrumano,
so che splendete invano,
che in voi non brilla amor.
Nessuno ignoto ed intimo
affetto in voi non brilla:
non chiude una favilla
quel bianco petto in se.
Anzi d’altrui le tenere
cure suol porre in gioco;
e d’un celeste foco
disprezzo è la mercé. (vv. 105-144)
Il Leopardi è consapevole che la natura è sostanzialmente crudele, che è sollecita non del bene, non della felicità degli uomini, non (come era venuto chiarendo nelle Operette morali) della vita, ma solo dell’esistere, dell’essere; essa, come il poeta soggiunge con un movimento atteggiato piú nelle forme di lamento che di accesa protesta, non ha altra preoccupazione che di conservarci alle sofferenze, al dolore.
Seguendo lo sviluppo lucido di questa serie di affermazioni negative frutto della sua consapevolezza, il Leopardi, dopo aver precisato il limite della sua ripresa di sensibilità verso la natura e le cose, passa a investire con tale amara consapevolezza gli uomini e poi lo stesso amore. Ma questo suo gusto simmetrico lo porta forse al di là di ciò che effettivamente egli poteva provare in questo periodo (meglio espresso in A Silvia dove si avverte una cosí forte simpatia umana, una tensione agli altri, al recupero dei morti «stati vivi»), a un eccesso di misantropia o di misoginismo. Per cui anche la stessa insistenza sulla non corrispondenza tra ciò che il cuore sente, tra l’amore che nasce nell’animo e l’oggetto di questo amore, sulla mancanza di un’effettiva radice nell’animo delle donne dell’amore, sul loro crudele prendersi quasi scherno delle pene dell’uomo innamorato, ha qualcosa di troppo astratto o di meno convincente rispetto all’energia che questi motivi trovano in altra direzione (in Aspasia), dopo che Leopardi avrà avuto un’effettiva e sofferta esperienza d’amore.
Ma la riaffermazione della consapevolezza della natura effettiva delle cose, degli uomini e dell’amore, e dell’impossibilità a un ritorno ingenuo alle illusioni giovanili, non spenge l’impressione quasi di letizia che gli dà il rivivere improvviso della sensibilità e del cuore:
Pur sento in me rivivere
gl’inganni aperti e noti;
e de’ suoi proprii moti
si maraviglia il sen.
Da te, mio cor, quest’ultimo
spirto, e l’ardor natio,
ogni conforto mio
solo da te mi vien.
Mancano, il sento, all’anima
alta, gentile e pura,
la sorte, la natura,
il mondo e la beltà.
Ma se tu vivi, o misero,
se non concedi al fato,
non chiamerò spietato
chi lo spirar mi dà. (vv. 145-160)
Il senso di letizia che gli dà il ritorno di vitalità spinge Leopardi fino a una concessione massima nei confronti della natura («Ma se tu vivi [...] non chiamerò spietato / chi lo spirar mi dà»). E in effetti il canto nel suo insieme è soprattutto mosso da questa impressione di letizia, di ripresa di vita, che si affida e si traduce essenzialmente nella rapidità del ritmo. Per cui si intende, ancora una volta, il legame profondo tra questa singolare poesia, tra la sua impostazione di metro e di linguaggio e la poesia del Settecento, che cosí ampio spazio aveva avuto nella Crestomazia: in particolare, come si è già accennato, certe odi del Parini (soprattutto Il brindisi), certe canzonette del Metastasio, come La libertà, e ancora del Pignotti, del Bertola (Partendo da Posillipo), del Pindemonte. Una poesia cioè congeniale alla natura e impostazione del Risorgimento, per il ritmo teso a tradurre qualcosa di improvviso e vitale, l’impressione viva di un cambiamento sentimentale, e insieme tipica per l’incontro tra movimento patetico (corrispondente alla ripresa del cuore) e gusto di lucidità, di definizione razionale, di simmetria, di ripetizione di parole tematiche e di elastico slancio nell’arcatura. Anche per il linguaggio usato nel Risorgimento (ma anche poi, con piú profonda fusione, nelle forme concrete e vaghe, dense e semplici, in altri canti successivi), la poesia settecentesca (e specie quella del Metastasio, amato dal Leopardi per il suo “patetico” e per la poesia delle oscillazioni del cuore) offriva esempi fondamentali, ripresi piú direttamente in quel componimento sia nella delineazione di un paesaggio essenziale («La piaggia, il bosco, il monte») sia soprattutto per quella dei moti del cuore (i «dolci affanni», i «moti soavi», gli «usati palpiti», ecc.).
1 Tutte le opere, I, p. 45. Fu scritto il 15 febbraio 1828, a Pisa, ma dal Leopardi fu collocato in appendice ai Canti soltanto nel 1835, al trentaseiesimo posto.
2 «A caso entrai nella fucina un giorno, / ove fabbrica Amor l’arme fatali, / e nel mirar d’intorno / mille diversi strali, / richiesi al Fanciulletto: / ov’è lo stral, che dee ferirmi il petto? / Non è ancor pronto, mi rispose Amore, / or lo tempra il Rigore»; in Scherzi poetici e pittorici, Pisa, Dalla Nuova Tipografia, 1798.
3 Tutte le opere, I, p. 992.
4 Tutte le opere, I, p. 350.
5 Cfr. Tutte le opere, I, p. 1150.
6 Cfr. Tutte le opere, II, p. 1154.
7 Cfr. Tutte le opere, I, pp. 24-26.